Senza dubbio il lavoro è un ingrediente vitale del benessere umano: il lavoro interessa tutti, trascorriamo più ore lavorando che facendo qualunque altra cosa e a volte può coinvolgerci talmente da caratterizzarci in toto. Dall’artista all’imprenditore, dall’intellettuale al lavoratore nella New Economy, per giorni interi, ininterrottamente ci si sforza di partorire l’idea creativa, l’ispirazione giusta, l’innovazione importante: il lavoro può produrre eccitazione. È una vera sfida, dove il rischio del fallimento è poca cosa rispetto alla gloria della vittoria e del successo. C’è energia e avventura nelle sfide: ci sentiamo vivi. Altre volte, però, il lavoro è banalmente lavoro. È realmente laborioso e faticoso, non solo nel senso fisico, è infinitamente omogeneo e ripetitivo. È fare la stessa semplice operazione, per giornate intere, ora dopo ora. Nessuna immaginazione, nessuna eccitazione, l’avventura di prima ora diventa routine; se alcuni lavori esaltano la nostra umanità, altri la mortificano violentemente. Ecco uno dei tanti ambiti dove la fede cristiana e la prospettiva evangelica sembrano poco efficaci.
Posizioni diverse
A dire il vero esiste un’ampia discussione tra cristiani che prova a limitare l’attitudine del mondo contemporaneo riguardo al lavoro. Le posizioni oscillano tra coloro che vedono il lavoro come elemento sostanzialmente positivo e intrinsecamente buono e chi abbraccia un ideale di moderazione e scetticismo. La matrice teologica che complessivamente emerge presenta però diverse disarmonie: di fatto le chiese evangeliche hanno abbandonato la riflessione sul lavoro e l’economia. Il risultato è che molti cristiani vivono la loro fede in modo totalmente disconnesso dalla realtà; quale utilità ha una fede che ha perso la sua rilevanza quotidiana? che cosa fare di una religione che evita o ignora il 95% dell’esistenza?
Facciamo un esempio. Accade (poche volte, è vero, ma accade ancora) che una persona diventi cristiana, che accetti con entusiasmo la chiamata a essere cittadino del regno di Dio, seguace di Gesù. Il suo cuore e la sua mente sono talmente trasformati che adesso questa persona ama il Signore e le sue cose; ci si affida alla parola di Dio e con gioia si inizia una nuova vita. Subito le cose della fede diventano dolci e familiari, c’è entusiasmo, si scopre che c’è una vocazione, una chiamata personale: è l’elezione a essere discepoli di Gesù, che significa essere eletti a servire nel regno di Dio. Come si articola praticamente tutto questo? La prima cosa da fare è appartenere a una chiesa cristiana viva e attiva: l’espressione più ovvia della nostra cittadinanza nel regno di Dio è proprio quella di essere membri attivi di una chiesa locale. Il problema è che frequentemente qui ci fermiamo, manifestando subito un preoccupante deficit teologico a cui seguono diversi scompensi di tipo etico.
La redenzione in Cristo
La redenzione, di cui fa parte la chiamata al regno di Dio, ha però un significato globale: ogni aspetto della nostra esistenza e ogni dimensione della creazione sono catturarti dalla redenzione di Gesù Cristo. Nulla è escluso. La vita nel mondo non perde significato, anzi trova un rinnovato splendore. Tutto quello che facciamo e siamo, dalla famiglia al lavoro, dalla politica alla fede, dal lavoro al riposo… deve manifestare il potere redentivo di Dio. Questa è la chiamata al regno di Dio. Ed è nel lavoro che trova una delle sue prime concretizzazioni.
Il buon senso suggerisce che la vita è più del lavoro, ma a volte la vita cristiana è “altra” dal lavoro; il disagio è forte, innaturale; produce tensione e frustrazione ed è causa frequente di irregolarità e disequilibrio nella maturità cristiana. La prima cosa da ricordare è che il lavoro non è il frutto del peccato: è un elemento della creazione, un dono di Dio. Il lavoro precede la caduta ed è uno dei motivi per cui Dio ci ha creati; certo con la caduta anche esso è stato corrotto, è doloroso e non sempre piacevole, genera frustrazione più che realizzazione personale ma è ancora un elemento della chiamata al regno di Dio. I riformatori ci ricordano che non è possibile restringere la vita cristiana ai suoi soli elementi ecclesiastici e spirituali; se la teologia medievale elevava e prediligeva la vita contemplativa, loro invece enfatizzavano il sacerdozio di tutti i credenti. Questo non significa solamente che tutti possono relazionarsi direttamente e personalmente con Dio, ma implica anche che ogni servizio umano, ogni attività e qualunque lavoro è ugualmente un servizio reso a Dio; siamo tutti sacerdoti e profeti nelle nostre occupazioni e ogni lavoro, retribuito o meno, a casa o in fabbrica, nelle scuole o negli uffici, può essere un vero ministero.
Lavoro e realizzazione
La seconda cosa è che il lavoro non è l’antitesi della realizzazione umana: noi siamo chiamati a manifestare l’immagine di Dio nella vita quotidiana e dunque anche in quella professionale; certo il lavoro può essere pesantemente alienante e non era così nei progetti di Dio. La soluzione però non è quella di abbandonarlo a se stesso ma iniziare, come cittadini del regno di Dio, a redimere anche la vita lavorativa. Cominciando dall’evitare le polarizzazioni della società contemporanea che da un lato sovrastima alcune attività, dall’altro ne disprezza molte. Il lavoro non è una condizione per lo sviluppo e il benessere dell’individuo, piuttosto esso è parte fondante di tale sviluppo. Il nostro benessere non può essere ricercato dopo il lavoro: invece può essere, dovrebbe essere, parte del lavoro stesso.
Responsabilità
Il terzo elemento è che il lavoro è sempre un agire responsabile. Se il lavoro riflette l’immagine di Dio l’elemento retributivo o salariale non è il solo importante; il lavoro è relazione e dunque l’importante non è quanto ne ricaviamo ma quanto fedeli siamo nell’usare le nostre capacità, con quale responsabilità costruiamo il benessere della nostra società e delle altre persone. Non è sempre facile; in fabbrica come a scuola non siamo noi a decidere, non siamo noi a stabilire la visione e gli obiettivi, non siamo noi a individua- re compiti e responsabilità. Quasi sempre occupiamo spazi che altri hanno pianificato e parlare di vocazione in certi contesti è quantomeno fuori luogo, irrealistico e romantico. Per molti il lavoro è tutt’altro, la chiamata e la vocazione sono solo sofferenza e insoddisfazione. E dunque?
La risposta sta nel ristrutturare il lavoro, riformarlo, perché esso diventi realmente espressione di servizio, di integrità e vocazione umana. Occorre ripensare le strutture organizzative, la legislazione e non ultima la nostra visione del mondo e della vita, affinché sia possibile l’esercizio di una genuina responsabilità umana. L’impegno richiesto è quello di aiutare noi stessi e il nostro prossimo a vivere la propria professione in modo responsabile, come modalità genuina di servizio a Dio e agli altri. Certo pochi di noi sono pronti a lanciarsi in grandi progetti di riforma, ancora meno sono coloro che lo fanno deliberatamente; tutti noi, però, possiamo offrire i nostri doni e le nostre capacità alla causa del regno di Dio. Spesso questo significa vivere ordinariamente e comunemente una vita trasformata dal Vangelo, ma non importa; un lavoro fatto con responsabilità e integrità costruisce il regno di Dio. Gesù stesso, nella parabola dei talenti, insegna che per i discepoli il problema non è quale vocazione hanno, ma quanto fedelmente la vivono e la realizzano.